IL DOLORE NELLA VISIONE UMANA Prof. SALVATORE NATOLI
Si può dire che il dolore, la sofferenza è universale, ma non lo sono i modi per soffrire. Una volta affermata l’unicità del dolore, si rubano delle differenze talmente profonde da risultare molte volte reciprocamente comprensibili. In ogni individuale soffrire c’è un riverbero del dolore universale: c’è una muta solidarietà tra chi soffre, c’è una tresca ed un ammiccamento tra chi soffre e chi non soffre; dinanzi ad ogni emblema di sofferenza ognuno, a suo modo, si sente chiamato in causa. Il dolore è solo di chi soffre, ma di fronte ad una qualsiasi sofferenza irrompe, tremenda, la possibilità di soffrire: da qui la tresca, il sentirsi in un certo senso tutti coinvolti, il colloquio senza parole tra i segnati dal dolore e i candidati possibili: da qui il gioco inquieto tra timore e dissimulazione. Il dolore patito si universalizza nel dolore possibile, il dolore possibile trova il suo quotidiano riscontro nel dolore patito: in questo perpetuo rinvio la dimensione del dolore si attualizza come dimensione costante, la presenza del dolore diviene immagine familiare sempre allontanata, ma comunque riemergente. Il possibile è il termine medio tra l’individuale e il generale, tra l’atrocità dell’evento ed il suo possibile ed indeterminato accadere: tutti sono candidati al colpo imprevisto ed imprevedibile. Da qui l’elaborazione di tutte le immagini di dolore che attraversano il campo di esistenza tra gli individui ed in cui gli si inscrivono come soggetti di sofferenza attuale o possibile.
Ogni dolore individuale rinvia ad una cosmologia del dolore che ospita le sofferenze dei singoli e, a suo modo ne dà esplicazione. Il perpetuo rinviarsi individuale ed universale genera quell’insieme di luoghi comuni entro cui gli uomini si scambiano continuamente le loro esperienze di dolore e dove il parlarne diviene legittimo
Il dolore qualunque sia la sua origine ed in qualunque modo sia vissuto rompe il ritmo abituale dell’esistenza, produce quella discontinuità sufficiente per gettare nuova luce sulle cose ed essere insieme patimento e rivelazione.
Il mondo si vede in un modo in cui non si era visto prima. Il dolore è veicolo di esperienza e quindi di conoscenza. A questo titolo il dolore è un fatto personale, ma è anche evento cosmico: questo intreccio di singolare e di universale mai del tutto districabile nell’esperienza del dolore permette a questa esperienza di farsi linguaggio. Solo il riverbero di universale, che è presente in ogni esperienza individuale di dolore ,permette a chi soffre di comunicarlo e a chi guarda di presentirlo e di riconoscerlo.
A controprova di questo basta considerare quanto accade nella vita comune: il muro di silenzio che si innalza tra coloro che soffrono e coloro che non soffrono e che separa al di là di ogni sentimento di pietà; l’impotenza di ogni consolazione, la vanità delle parole che pretendono di apportare sollievo e che il sofferente amorevolmente tollera o con irritazione rifiuta.
Infatti una tesi fondamentale della sofferenza, soprattutto della sofferenza estrema è che si colloca al di sotto e al di sopra del linguaggio. Il mutuo patire è strettamente imparentato alla morte. Il dolore infatti è vita che si riduce, il suo rischio più alto è la morte.
Il dolore è al di sotto della parola perché sono poche le parole efficaci. Chi soffre cade nel mutismo. Non a caso si parla di pietrificazione. Il dolore pietrifica, che dire. Dall’altro lato il dolore è eccesso di parola, c’è la farneticazione e il delirio. Nel dolore costantemente ci si domanda: “Perché io soffro, perché a me?”. Ricorderete tutti in Manzoni di Tonio, scimunito dalla peste: “A chi la tocca, la tocca. A chi la tocca, la tocca”, fino al grido, la parola inarticolata. Ecco quindi, in quanto lacera il dolore, eccede il linguaggio. Ed è sempre di troppo e troppo poco. Allora si cerca la parola “efficace”. Per esempio nella credenza religiosa la parola “efficace” era la preghiera, perché magari il dolore non cessava, ma c’era una speranza, un “TU”, una confidenza, un’attesa del miracolo. Questo non cancellava il dolore, ma lo rendeva in un certo modo sostenibile, vivibile. E poi con la parola “efficace” che è quella della tecnica, oggi l’uomo quando soffre, a chi si rivolge in primo luogo, a che cosa pensa, dove trova la parola “efficace”? La trova nella tecnica.
E’ chiaro che in epoche diverse, quando la tecnica non aveva raggiunto il livello di qualità e di efficacia di oggi, c’erano altre modalità per affrontare il dolore, modalità, per molte volte, per molti casi, esse stesse tecniche. Cioè la tecnica è molto antica, non sofisticata come oggi. Ma già con Ippocrate in fondo il dolore cerca di essere dominato attraverso il gesto tecnico. C’è una bella formula di Ippocrate, in cui si dice: “Il medico e il malato devono, insieme, combattere contro la sofferenza”. Il dolore fisico è un segnale, uno stimolo che preserva, che allerta. Tant’è vero che nella medicina classica il dolore era considerato un sintomo della malattia. Non era esso malattia. Oggi, con lo sviluppo della tecnica, noi siamo arrivati al punto che il dolore ha cessato di essere solo sintomo. E’ diventato esso stesso malattia. Perché? Perché, mentre prima bisognava curare la malattia per togliere il dolore, oggi con malattie, anche gravi e incurabili, si può controllare il dolore senza con ciò estinguere la malattia. Allora da questo punto di vista il dolore oggi non è più solo un sintomo, un allarme, ma esso stesso un male
L’esperienza del dolore, diciamo, ha due facce. C’è una parte oggettiva del dolore, che è il danno, che può essere rompersi un braccio, avere una grave malattia. E l’altra è il senso, cioè quale significato si attribuisce a questo atteggiamento. Allora, per capirci brevemente, immaginiamo un induista, immaginiamo un cristiano, immaginiamo un non credente. La stessa sofferenza è diversamente interpretata. Ci sono delle culture in cui la sofferenza è interpretata come la dimensione dell’apparenza. Ci sono delle culture in cui la sofferenza è vissuta in modo profondo: il dolore vivo. Ci sono delle esperienze, per esempio quella cristiana dove c’è il dolore vivo ma è visto nella dimensione della redenzione. Ecco lo stesso danno è vissuto in diverso modo. L’esperienza del dolore sta nella circolarità tra danno e senso. Ecco allora il passaggio di civiltà, i modi diversi in cui quella circolarità, di volta in volta si attiva. Allora si capisce perché pur essendo universale, il dolore è diverso. Nessun uomo potrebbe affrontare la sofferenza, resistere ad essa, senza attribuirvi un senso. Infatti la storia del mondo testimonia come il dolore sia intimo alla vita. Per i Greci il dolore è l’esperienza della morte e in questo senso è tragedia. La visione tragica del mondo insorge nell’uomo con la scoperta della crudeltà dell’esistenza. Natura ebbra e felice, ma perciò stesso distruttiva e violenta nel suo eterno prodursi e dissolversi. La morte dunque è immanente alla vita, non sopraggiunge come un accidente possibile, ma forma con la vita la stessa trama che la costituisce e la distrugge. L’esistenza è tragica, perché in essa la crudeltà non è separabile dalla felicità. Dioniso dio lacerato, è il contrassegno tragico dell’esistenza come estrema gioia ed estremo dolore.
La concezione cristiana si oppone a questa “visione tragica”. Le due tradizioni hanno elementi in comune e nel corso del tempo, hanno acquisito somiglianze che mai avevano, ma esse restano estranee nella radice dove decisivo e discriminante è il senso del dolore.
Nella tradizione ebraico-cristiana la speranza è lo sfondo del dolore e della sofferenza, dove la speranza è incondizionata, risplende nel fallimento umano e quindi vince la morte. Qui il dolore è collocato nella speranza il cui opposto è la disperazione. La tradizione ebraico-cristiana conosce la disperazione, ma mai la tragedia.
Nella società contemporanea, abbiamo a che fare con un neo – paganesimo senza tragedia e con una soteriologia senza fede. La tecnica determina in larga parte le condizioni entro cui gli uomini possono sperimentare il dolore; ha il potere di far variare la soglia del dolore e perciò di decidere i livelli di percezione della sofferenza.
La tecnica ha alleviato e continua ad alleviare il dolore. Il dolore vivo è diminuito. Molte malattie sono gestibili, controllabili. Quindi sarebbe chiudere gli occhi se non si ammettesse che la scienza ha ottimizzato la vita e quindi, nel contrasto col dolore è stata appunto parola potente. Però è chiaro che non lo ha sconfitto. Allora a fronte di questa grande crescita a sviluppo della tecnica si sono create come sempre delle controfinalità. Per cui, se per un lato la tecnica ha riscattato un uomo da molti dolori, lo ha esposto a forme nuove di sofferenza. Per capirci, un esempio. C’è una bella formula di Epicuro che dice: “Se la malattia è grave, è breve. Se è lunga si può apprendere a convivere con essa”. Oggi la tecnica ha creato un quadro nuovo di esperienza. Ci possono essere malattie gravi che possono diventare lunghe, cioè la tecnica può mettere l’uomo nelle condizioni di essere sotto un’ipoteca di morte per lungo tempo. Che si fa in questo tempo? Ecco , allora, come la tecnica, pur avendo risolto tanto dolore, crea condizioni diverse di problematicità, perché un uomo che non ha futuro, come riempie questo spazio di tempo? Può la tecnica risolvere questo? Non sempre. Per cui, grazie ai successi della tecnica, noi abbiamo ridotto il dolore vivo, ma la sofferenza si è riformulata secondo un’altra qualità. E allora, per affrontare questo, ci vuole un altro linguaggio a cui la tecnica non è sufficiente. La dimensione scientifico – tecnologica costituisce oggi l’orizzonte entro cui la realtà del mondo viene compresa. In questo medesimo orizzonte si inscrive l’esperienza del dolore. Oggi la tecnica filtra il dolore e la stessa spettacolarizzazione del dolore è un modo per esorcizzare la tragedia. Quello che è importante è dimenticare il male.
A questo punto, che cosa vuol dire dolore: esso può essere definito in termini neuro fisiologici, clinici, psicologici, psicoanalitici, sociali, religiosi, comportamentali e così avanti. L’esperienza del dolore è quindi smembrata e compresa in base a corpi disciplinari differenziati. Oggi l’uomo è persuaso di poter dominare il dolore con la tecnica. Infatti la società contemporanea associa sempre il dolore ad una proposta terapeutica. Ma la tecnica può fallire. L’uomo contemporaneo conosce tutto questo, percepisce il rumore di fondo della sofferenza che porta dentro come forma di ansia.
Dal dolore viene all’uomo la misura, perché in esso incontra la sua finitudine. Infatti la gioia si può ottenere solo attraverso la cognizione del dolore. Infatti il dolore può produrre una coscienza superiore. Che vuol dire? Ecco, il dolore abbrutisce, il dolore strazia, il dolore indebolisce la mente, quindi non sempre nella condizione di dolore il soggetto accede a un punto di vista superiore. Nei dolori si sviene. Quindi non bisogna dimenticare la dimensione impoverente nel dolore. C’è però anche un’altra dimensione: il dolore non è sempre vivo. Anche nel sofferente ci sono momenti alterni. E che cosa produce il dolore? Il dolore produce una forte interrogazione su di sé. Che senso ha la vita se io soffro? Se la vita è lo spazio in cui l’uomo deve realizzare le proprie possibilità, ecco, nel dolore che cosa si sperimenta? Si sperimenta non solo il dolore vivo, ma l’interruzione delle proprie possibilità. E allora ci si interroga: perché, che senso ha vivere? Allora nel dolore l’uomo diventa una questione centrale. Il pensiero a sé diventa il pensiero di sé nel mondo e quindi il senso del mondo. Ecco perché, a partire dall’esperienza del dolore, l’uomo si interroga sul male e quindi sulla realtà, la verità dell’esistere. Da questo punto di vista, il dolore pone una condizione di interrogazione di domanda su di sé e quindi un rapporto tra sé e il significato del mondo molto alto. Allora da questo punto di vista, per quanto abbrutisca, pone anche delle condizioni di interrogazioni radicali e profonde. Per cui, se il dolore non abbatte – e molte volte abbatte e cancella – diventa un’occasione per crescere. Può essere un modo attraverso cui l’uomo scopre risorse che altrimenti non avrebbe scoperte. E quindi può ricostruire una dimensione di sé, un’immagine di sé altra, nuova, per molti versi, appunto se non è sconfitto vittoriosa. Quindi il dolore non è mai in assoluto qualcosa di negativo. Può diventare un passaggio di crescita, senza dimenticare però che può essere anche una ragione profonda di sconfitta. Di dolore si muore, ma adesso anche si scampa, adesso si sopravvive. Di più se non si perisce, attraverso il dolore si cresce. La sofferenza, data la radicalità dell’esperienza, produce sapienza.
Nel dolore si può parlare di una gradualità in senso elementare, nel senso che una piccola contusione non è un grande trauma. Un grande trauma non è una grave malattia. Ma allora qui ci sono due distinzioni da fare. Ci possono essere dimensioni di dolore vivo, molto forte, ma anche molto breve. Allora, quando si ha un dolore vivo molto forte, ma se ne conosce la natura, questo dolore viene meglio sopportato, di un dolore accennato, di cui non si conosce l’origine, perché quello può essere grave, perfino mortale. Allora cosa vuol dire grado del dolore? E’ il dolore vivo oppure ciò che il dolore significa. Un dolore vivo, di cui si ha però la persuasione che svanirà, che è curabile, diventa meglio sopportabile, soprattutto con l’aiuto dei farmaci che oggi abbiamo a disposizione, di quanto non lo sia un dolore ambiguo. Quindi già si capisce bene come l’interpretazione del dolore definisca il grado del dolore o quello che comunemente si dice la “soglia” del dolore. Quindi la “soglia” non è mai oggettiva. Visto che abbiamo introdotto questo tema, allora torniamo di nuovo al discorso della circolarità tra danno e senso. Anche questo gradua il dolore, perché è in una situazione in cui a un dolore anche grave si riesce ad attribuire un significato, questo dolore lo si sente meno. Pensiamo, nella tradizione cristiana, al dolore offerto in espiazione, per esempio offerto in espiazione del male, che intenzionalmente gli uomini fanno, allora questa dimensione dell’offerta non annullava il dolore, ma in un certo senso lo finalizzava e allora diventava più sostenibile. Per i Greci, invece, essere virtuosi nel dolore significava essere capaci di sopportarlo: è una questione di abilità e di esercizio, una paideia. Così dice la regina dei Persiani di Eschilo: “Ma i dolori che manda il cielo l’uomo non può che sopportarli.” L’unica risposta per non morire è quella di attrezzarsi a soffrire.
Il dolore morale esigerebbe una riflessione a parte, ma brevemente posso affermare che non bisogna separare il dolore morale, preferirei chiamarlo il dolore mentale, dal dolore fisico, perché ogni dolore fisico mette a disagio la mente. E quindi esiste una somato-psicosi, cioè il disagio del corpo mette in crisi la mente, allo stesso modo in cui il disagio della mente o di rappresentazione mette in crisi il corpo. Quindi si tratta di definire il grado di questa circolarità. Ma ogni dolore fisico è anche mentale, ogni dolore mentale è anche fisico. Non possiamo mai scindere nell’uomo la rappresentazione di sé dalla sua condizione effettiva, corporea.
Certamente l’esperienza del dolore trasforma il rapporto con il proprio corpo. Facciamo un esempio. Immaginiamo di fare una gita in campagna in una giornata d’estate, allora ad un certo momento dopo aver camminato siamo sudati troviamo una fonte, c’è quest’acqua fresca, la beviamo l’arsura è placata con un gran ristoro. Che cosa sentiamo? Sentiamo la freschezza dell’acqua sentiamo il mondo sentiamo gli odori.
Immaginiamo di avere una lesione al labbro che ci provoca dolore quando accostiamo le labbra all’acqua , quindi non sentiamo il piacere dell’acqua ma sentiamo il corpo.
In questo caso il corpo diventa una barriera tra il proprio desiderio ,l’universo delle possibilità e le realizzazioni delle medesime possibilità.
Che cosa vuol dire “venire al mondo”, la parola “venire al mondo? Che il mondo è lo spazio delle nostre possibilità. Il bambino viene al mondo, comincia a camminare nel mondo, muove i primi passi, tocca, raggiunge le cose. Il corpo colpito ha dinanzi a sé un mondo irraggiungibile. Ecco perché si cambia la dimensione dell’esperienza del proprio corpo. Si cambia anche soprattutto la dimensione dell’esperienza di sé nei confronti degli altri. Ecco perché il dolore separa, Si dice : il dolore inchioda. E’ inchiodato a quella sedia. Gli altri vanno per il mondo. Potranno avere compassione, pietà? Lasciamo stare gli atteggiamenti, ma intanto loro vanno perché la vita li chiama. Hanno anche dei doveri, e intanto tu sei inchiodato lì. Ecco allora la dimensione di immutato rapporto col proprio corpo significa anche il mutato rapporto con gli altri.
L’esperienza del dolore è anche l’esperienza della separazione.
Forse una delle ragioni per cui gli uomini hanno pensato all’immortalità dell’anima è dovuta al fatto che questo mondo della rappresentazione, che , pur nel dolore sussiste, si è formulato come mondo separato.
Quello che io penso non coincide con lo stato di cose che realizzo, però continuo a pensarlo. Forse c’è una dimensione di me, allora , che può trovare pienezza al di fuori ai limiti del corpo, visto che il corpo si presenta come limite.
Questa è una credenza che storicamente è diventata una forma di consolazione, di compensazione. In una umanità che credeva l’immortalità dell’anima ed era persuasa di questo, il mondo avvenire rappresentava un bilanciamento del male di questo. E’ chiaro che non tutto il Cristianesimo si risolve in questa credenza, ma certamente nei secoli cristiani gli uomini hanno pensato all’atro mondo come quel mondo in cui l’uomo sarebbe stato riscattato dal dolore del presente. Questo era un modo attraverso cui la stessa sofferenza diventava assennata pur nella lacerazione. L’immortalità era un modo per dare senso al dolore del mondo. Fine, destino è Dio che consola, che protegge e soprattutto che redime. Ieri si diceva “la vita è programmata per l’immortalità,” ma la vita ha programmato l’immortalità. I singoli sono sacrificati all’immortalità della vita. Gli individui vogliono durare come singolarità, infatti il progresso tecnico con l’accanimento terapeutico , i trapianti, la correzione del DNA ha innescato un meccanismo in cui ci si vuole individualmente immortali. Oggi gli individui vogliono durare come singolarità che non accetta la morte, perché la morte accettata vuol dire davvero accettare la vita.
Il vissuto della morte non è stato sempre uguale, nelle epoche del mondo, e non è uguale nelle diverse civiltà del mondo, perché il tema dell’individualità, della morte come morte solo mia, è abbastanza recente rispetto alla storia dell’umanità, perché nelle società arcaiche la morte era un fatto collettivo, per il semplice fatto che la società era più integrata. Nelle società arcaiche si viveva insieme, si stava insieme, c’era una continuità di spazi, di ritmi di vita. Era difficile cercare e trovare la solitudine e quindi la morte certamente era patita dall’individuo ma era patita anche e soprattutto dalla comunità. Cioè la comunità viveva la morte di un suo membro come una perdita radicale, come una ferita. Nella tradizione antica, per esempio nel pensiero di Epicuro, la morte era considerata un evento naturale e in quanto tale non può essere vinta, ma cessa di essere scandalosa. L’uomo apprende per esperienza e perciò ha cognizione della sua natura mortale. L’uomo sa di essere fatto per morire; conosce l’eternità del ciclo e per questo sa quanto in esso è posto e anche deposto. Chi ha cognizione del reale conosce la ciclicità della natura come alternanza di vita e di morte: per questo intende perfettamente da un lato la mortalità di tutto ciò che è naturale, dall’altro la fecondità di ciò che è immortale. Il cadavere è semente, germe di nuova vita: tutto si genera dalla terra immortale ed essa accoglie la semente dei morti come germoglio di nuova vita. Eschilo, all’inizio del Coefore, pone sulla bocca di Elettra le parole di un rituale arcaico: “ O Ermes sotterraneo, soccorrimi: intima per me che i demoni sotto terra custodi della casa del padre ascoltino e li oda la terra che germina tutte le cose e le nutre e alla fine il seme ne accoglie”. Oggi invece la vita si difende dalla morte rimuovendola fino ad ignorare il morente. La morte non si può cancellare, si può non farla apparire. Nel mondo antico (Epicuro e Lucrezio) la morte era aggregazione e disgregazione quindi non era una forza esterna che uccideva, ma la natura, dentro di sé, aveva il germe della morte. Ogni uomo muore perché la morte matura dentro di lui. Quindi c’è questa dimensione di naturalità della morte. Ecco, nel mondo moderno, che cosa è successo? Che nel momento stesso in cui l’uomo assume come ovvia la naturalità della morte o addirittura non si crede più alla vita eterna quindi la morte come evento naturale dovrebbe essere più facilmente accettata. Ma questo non è avvenuto perché in concomitanza della persuasione che la morte è naturale, si è sviluppata la tecnica. E la tecnica ha la possibilità di differire la morte col prolungamento della vita anche in casi di grave malattia; c’è una possibilità di ridurre il dolore vivo e allora il fatto che la tecnica abbia avuto il potere di differire la morte per quanto la morte sia pensata come naturale, è vissuta come innaturale. Destino dell’individuo rispetto alla morte, si gioca anche come rapporto dell’individuo rispetto alla tecnica. Il risultato finale è che l’uomo affidato alla tecnica, è sottratto alla comunità. Ora noi siamo in una società in cui la morte non si incontra più nella quotidianità della vita. Nelle società arcaiche, ma anche in quelle più recenti, dei nostri genitori insomma, la morte si incontrava nella vita, nel senso che il malato stava in casa, c’era un’assistenza del paziente, si vedeva morire la persona, c’era un contatto fisico con la morte. Con la tecnica, il malato, il morente è sottratto, perché affidato al competente. Il risultato pratico è che, per quanto ci siano relazioni d’affetto, non c’è il contatto fisico con la morte. E quindi la morte, in quanto gestita dalla tecnica, viene sottratta all’ordinario della vita e nella vita corrente di ogni giorno, si cerca di fare sparire la morte. Ma la morte resta sempre un fattore drammatico è lo spettacolo della vanità, la vita che si dissolve. La vita non vuole morire. Anche se la morte è naturale, il vivente, fino a che vive, non vuol morire. Quindi c’è un elemento traumatico nella morte, un trauma profondo che spinge l’uomo ad interrogarsi sul senso della sua esistenza. Oggi, però, noi siamo abituati a vedere solo immagini vitali, immagini di bellezza. Anche la carie di un dente è rappresentata come bella, perché associata al viso di una bella ragazza. Si dà un’immagine di sanità. Eppure la morte c’è e ci sono eventi terribili in cui la morte c’è. E allora come appare questa morte? Nella forma della rappresentazione, dell’epopea del macabro. La morte è qualcosa di rappresentato e non di vissuto e quindi, in questo senso, è resa visibile, ma nello stesso tempo, è resa finta perché non entra nella quotidianità della vita. E’ talmente spettacolarizzata da sembrare inverosimile. E quindi la morte è ridotta a film. Ma come dice Heidegger nella morte il soggetto non è mai sostituibile. Cioè l’unica situazione per un uomo in cui è protagonista assoluto e non può essere sostituito da nessuno è la morte. Quindi nella morte il soggetto fa l’esperienza più propria, cioè, della sua radicale unicità.
La morte è anche l’esperienza del legame, perché nella morte si muore sempre per qualcuno. Morire per gli altri vuol dire questo: mettiamoci dalla parte del morente, il morente patisce la sua morte. Ma patisce che cosa nella sua morte? Il distacco dal mondo, quelli che lascia perché altrimenti non patirebbe la morte, come abbandono della vita, e quindi come distacco dagli altri. L’altro che vede morire la persona cara, ne patisce la perdita cioè tutto quello che avrebbe potuto fare con lui. Quindi la morte dell’altro porta con sé definitivamente a morte tutte le possibilità che io avrei potuto vivere con lui. Nella morte quindi c’è l’esperienza dell’autenticità, ma anche l’esperienza profonda della relazione, del legame. Ecco perché nelle società antiche, la morte era sentita come un trauma della comunità.
Ci può essere anche una bella morte quando nel morire la formula è non lasciare in eredità qualcosa, ma lasciarsi in eredità, cioè qualcuno che accolga il morente in sé, quasi per continuare il suo compito. Ma allora per morire così bisogna vivere bene. Ecco il problema di oggi: la solitudine. Oggi si parla tanto di solitudine del morente, ma la solitudine del morente comincia molto prima perché i legami forti sono sempre meno forti nella vita. Ma poi viene un punto in cui questi legami non ci sono, si resta soli. Si muore soli, perché si è vissuti soli.
Dinanzi a situazioni finali in cui il dolore è forte e non c’è nessuna possibilità di risanamento, il dolore comincia a diventare inutile. E allora perché far sopportare agli uomini un dolore inutile? Un inutile crudeltà? In alcune malattie, l’accanimento terapeutico mantiene in vita una entità, che non possiamo più neanche chiamare persona solo per farla soffrire. In alcuni casi addirittura non c’è neanche la sofferenza, perché siamo in un livello di insensibilità, di assenza di coscienza, dove l’accanimento, non solo tiene in vita ciò che non vive ma è anche uno spreco di risorse rispetto a persone che invece potrebbero essere aiutate. Allora in questo quadro oggi sono tutti d’accordo, anche su posizioni diverse, che l’accanimento terapeutico bisogna evitarlo e quindi bisogna lasciar morire, che non è in senso proprio l’eutanasia, perché questa suppone che un soggetto decida che non può più vivere e dove la questione non è soltanto non sopportare un dolore inutile, ma è anche mantenere la propria dignità perché il dolore mortifica; c’è un problema di rispetto di sé. Allora in questi casi l’uomo deve diventare titolare della sua fine. E qui la situazione è difficile. Anche se in astratto si può condividere l’idea che, quando non si può più vivere, anziché entrare in un tunnel oscuro, è più giusto andarsene. Era questo il modo in cui gli antichi pensavano l’eutanasia: la grande uscita dalla vita. Ma se in linea di principio si può accettare questo nella pratica esistono dei problemi. Chi decide, quando decide, come e perché? Basta avere a che fare con dei malati, che ci si accorge molto spesso che passano da fasi di depressione a fasi di euforia. Quando sono depressi vorrebbero morire, quando sono euforici vorrebbero vivere. E poi dipende anche dal tipo di rapporto che c’è tra il sofferente e gli altri. Ho visto dei sofferenti che sino alla fine della propria vita ritenevano di dover portare a compimento un’azione. Si sentivano responsabili di un’azione e quindi non volevano morire. Allora chi decide? Quando, come, perché? Può essere una decisione solo medica? Allora entriamo in una delle situazioni di fatto, in cui, anche ammettendo, in linea di principio la legittimità dell’eutanasia, è molto difficile trovare una oculata giustificazione per praticarla in certi contesti. Tant’è vero che il problema si formula sempre più in termini di diritto. Come, qual è la legittimità?